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La cucina napoletana, assai più di altre tradizioni, ha in bocca la storia e lo spirito di una città che non ha uguali. Mastica la semplicità, gode dell'eccellenza dei prodotti e soprattutto esercita la creatività gioiosa che non si accontenta: a Napoli non basta mettere insieme il pranzo con la cena, ma occorre fare del cibo, come della vita, un boccone di piacere. È così che la tradizione popolare, ingegno del poco e del niente, ha corso accanto ai percorsi aristocratici della corte borbonica, segnata dall'influsso spagnolo ma soprattutto francese, in piatti sontuosi come i timballi, i sartù, o la pasticceria raffinatissima. Ma a Napoli tutto si tocca, si mischia, si confonde in un miracolo di identità e di sapore che funziona solo qui. "Mangiafoglie", ovvero di verdure e di minestre a volte elaborate e ingegnosissime (come nel caso della celebre minestra maritata), i napoletani lo sono stati per antica tradizione e non hanno smesso in fondo di esserlo quando sono diventati, assai più recentemente, "mangiamaccheroni". La pasta, e in modo diverso la pizza, è il respiro di Napoli e della sua arte: celebra le vongole anche quando se ne sono fujute, fa della frittata di maccheroni una religione di scrupolose esattezze e dello scàmmaro di magro un piatto che consola. Ma al contempo costruisce attorno alla pasta e ai suoi formati fastose architetture con crostate, timpani, timballi, lasagne e le dedica, in un atto d'amore e di pazienza, i grandi sughi di lenta cottura (ragù, bolognese, glassa e genovese). La cucina napoletana è una cucina che si arrangia meglio di qualsiasi altra, ma in nessun caso si accontenta.